Viviamo in un mondo in cui un uomo
può tagliare la testa ad altro un uomo e, impugnando ancora la mannaia
grondante di sangue, restare indisturbato dalla gente che lo circonda mentre
spiega davanti ad una videocamera i motivi di quel gesto.
È lo stesso mondo in cui un uomo si
accascia, colpito a morte da un proiettile, davanti ai tornelli della
metropolitana e la gente lo scavalca per prendere il treno ed evitare di fare
tardi al lavoro.
Anche io conosco una storia.
Quando Franco, un uomo di mezza età che
vive con sua moglie Anna e con il morbo di Parkinson, cercava di allontanare da
se’ il fastidioso ricordo di strane crepe della sua mente, finiva sempre col
prendere la sua bici per fare un giro in paese.
I paesi della riviera Romagnola a
volte sanno sorprenderti per la loro positività, con i loro viali alberati, l’odore
di salsedine che riempie dolcemente l’aria e i versi dei gabbiani, sempre
inspiegabilmente agitati.
Franco pedalava, forse non
consapevole di quanto fosse pericolosamente instabile la sua andatura, quando
ad un certo punto qualcosa distrusse con violenza il suo momento libero.
La perdita di equilibrio, un rumore
di ferraglia spezzata, il dolore lancinante alla gamba destra, fra il tendine
della caviglia ed il polpaccio, dove si è conficcato un pezzo di telaio.
Sangue.
Sta uscendo molto sangue da quell’arteria,
così tanto da formare un’inquietante pozza sull’asfalto, e Franco si alza in
fretta per paura di farsi vedere; è terrorizzato, non sa come risolvere il
problema senza coinvolgere i passanti (e senza chiamare alcuna ambulanza),
allora prende la decisione più estrema: correre a casa prima di morire
dissanguato.
Già, a casa, ma la casa è molto
lontana e l’unico modo di arrivarci è accelerare il passo, non curandosi del
sangue che esce a fiotti dalla sua gamba – e la bicicletta? Cosa faccio adesso?
È distrutta, non posso portarla a casa così, l’ho sporcata tutta, Anna mi
griderà sicuramente dietro.. devo lasciarla da quello che aggiusta le bici, lo
conosco e non mi dirà niente. -.
L’uomo prova a correre verso “quello
delle bici”, ma la malattia gli permette solo pochi e disorganizzati movimenti;
la gente lo guarda senza reagire, anche se lui lascia una nuova pozza di sangue
ad ogni singolo passo.
Lascia la bici da Luigi, il
meccanico, che gli chiede subito se ha bisogno di un’ambulanza, ma lui non si
ferma e continua la sua disperata corsa verso la sua meta; Luigi sottovaluta
quella ferita e continua a lavorare convinto che, una volta giunto a casa, Franco
riuscirà a medicarsi o a farsi medicare dalla moglie.
Roberto, incuriosito da uno strano
brusio esterno, uscì dal suo negozio, e capì che un uomo stava perdendo sangue;
facile da capire, alcuni passanti sono pietrificati dal terrore e, in
lontananza, si vede un uomo senza scarpe che annaspa come un pesce d’acquario
finito sul pavimento di casa.
Si diresse verso Luigi chiedendo
spiegazioni, e Luigi gli rispose - chi? Franco? Ma no, lo conosco, non è
successo niente di grave, fa sempre così.. probabilmente si è tagliato con un
raggio della bicicletta.. eh, la sua malattia peggiora e non riesce più a fare
movimenti coordinati...- -eh no, Luigi, quello s’è fatto davvero male, perde
troppo sangue e guarda che colore hanno le pozze.. si tratta certamente di
sangue arterioso e se non lo soccorrono in tempo la cosa finisce male!-.
Altre persone, forse lì per farsi
aggiustare la bici, guardavano la scena, ma nessuno mosse un dito per intervenire.
Capendo, sconvolto, di essere l’unico
a provare un briciolo di pietà per quell’uomo ferito, Roberto cominciò a
rincorrerlo.
Franco era già sparito, ma non fu complicato seguirne le tracce, perché le macchie di sangue sull’asfalto
diventavano sempre più fresche, sempre più grandi.
- Ehi, scusa, fermati! Fermati! Guarda
che hai bisogno di un medico, aspetta.. per favore fermati che chiamo l’ambulanza,
aspettami! - , - no, non ho bisogno, vai via, io vado a casa. -; le urla di
Roberto tuonavano nel silenzio dei passanti, tutti fermi come figure di
cartone, vili come iene, egoisti come solo l’uomo sa essere.
Roberto decise di chiamare i
Carabinieri, che arrivarono dopo dieci interminabili minuti, e nel frattempo
vide Franco estrarre un mazzo di chiavi ed entrare in una casa di cortile, la
sua.
I negozianti, nonostante si
consumasse quella scena drammatica proprio sotto ai loro occhi, uscirono con
secchi d’acqua e scope per lavare le pozze di sangue, come se si trattasse di
banali macchie lasciate dalla resina degli alberi; un gesto di routine, un gesto agghiacciante nella sua semplicità.
Anna raggiunse Roberto e, con un
sorriso palesemente falso, gli disse – ciao, sei tu quello che ha accompagnato mio
marito? - - non l’ho accompagnato, l’ho inseguito mentre scappava terrorizzato!
- - beh volevo ringraziarti, ora puoi stare tranquillo è tutto a posto, gli ho
messo un cerotto, è solo un graffio. - - solo un graffio? Lo seguo da mezzo
chilometro, sai quanto sangue ha perso? Non è un graffio, si è squarciato la
gamba! E comunque ho già chiamato i Carabinieri.. -.
I Carabinieri arrivarono e la donna ripeté
anche a loro le stesse parole di un minuto prima, minimizzando fino al ridicolo
la gravità della situazione; Roberto spiegò, invece, che l’uomo perdeva sangue
da molto tempo ed indicò quelle macchie non ancora pulite dai negozianti.
Anna fulminò con gli occhi Roberto e
gli intimò di stare zitto, anche in presenza dei due ufficiali.
- va bene, io me ne vado visto che
il mio aiuto non serve - ; colto da improvvisa delusione e senso di sconfitta,
Roberto si rivolse ai Carabinieri e pronunciò un sommesso – se avete
bisogno di me sapete dov’è il mio negozio- -.
Nessun tutore della legge passò in
quel negozio, e Roberto non seppe più nulla dell’uomo ferito.
Una storia di sangue, del resto, può
finire soltanto con un ritorno percorso a piedi, segnato ad intermittenza da
tracce rosse ed umide sull’asfalto.
Franco, Anna e Luigi sono nomi di
fantasia.
La storia invece no, quella è reale. E Roberto sono io.
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